Riassumere in poche righe la vita dell'abate Amé Gorret è assolutamente impossibile: si rischia di privilegiare alcuni aspetti, tralasciandone altri non meno significativi. Ma siccome da uno di essi bisognerà pur cominciare, mi preme sottolineare innanzi tutto come egli sia stato uno dei massimi esponenti di quel fenomeno tutto ottocentesco e tipicamente valdostano di connubio tra clero ed alpinismo.
Nativo di Valtournenche (1836), passò l'infanzia nella conca di Cheneil: in quella che ancora oggi costituisce un angolo di natura pressoché incontaminata. All'epoca però era una zona altamente produttiva dal punto di vista agro-pastorale, mentre il turismo non era nemmeno immaginato. Come molti giovani del suo paese, abbracciò la carriera ecclesiastica, senza però mai soffocare quel fuoco interno che lo spingeva ad affrontare salite fino ad allora considerate impossibili. Ricordiamo la prima della Testa del Leone (1857) con Jean-Antoine Carrel, nel corso di un primo assaggio alle pareti del [[Cervino]]. Nel 1865 fu poi l'animatore della conquista del versante italiano della stessa montagna, in risposta alla prima dell'inglese Whymper di due giorni precedente, ma affrontata dal lato svizzero.
Potremmo continuare a lungo enumerando diverse prime ascensioni e molte altre scalate di cui egli ci ha lasciato dei puntuali resoconti (ai quali vi rimandiamo) apparsi sui bollettini dei Club Alpini di Italia, Francia e Svizzera ed ora raccolti in alcune pubblicazioni commemorative. La sua competenza in materia di alpinismo gli valse la nomina a Membro Onorario del CAI.
L'aver citato i resoconti scritti delle sue imprese ci permette di riallacciarci ad un altro aspetto della complessa personalità dell'abbé Gorret, quella della sua grande capacità di scrittore, mai noioso e qua e là spiritoso se non addirittura mordace. Una penna raffinata, insomma, che spicca tra i suoi contemporanei, per lo più tendenzialmente retorici e verbosi. Per apprezzarne a pieno il talento occorre naturalmente conoscere il francese, lingua nella quale si esprimeva come tutti i valdostani del suo tempo. Citiamo solo due titoli: Guide de la Vallée d'Aoste par l'Abbé Gorret et le Baron Bich (Torino, 1876) prezioso volume che si può tutt'ora leggere con avidità per ricavarne uno spaccato su quella che era la Valle d'Aosta di fine secolo: le sue vie di comunicazione, le sue infrastrutture un testo "incontournable" per una storia del turismo in questa parte delle Alpi; Victor-Emmanuel sur les Alpes (Torino, 1878) in cui si rievoca la passione per la caccia e l'affetto dell'allora recentemente defunto re d'Italia per la Valle d'Aosta ed i suoi abitanti.
L'Orso della Montagna (l'Ours de la Montagne) è non solo il famoso pseudonimo con il quale l'abbé Gorret firmava i suoi scritti, ma è anche il simbolo di quel lato della sua personalità che più di ogni altro ha contribuito a tramandarne la fama. Tutti i suoi biografi hanno potuto contare su innumerevoli aneddoti particolarmente gustosi per arricchire i loro testi: il Grand Gorret (così chiamato a causa della sua taglia) fu persona dallo spirito indomito ed anticonformista in un periodo storico che mal tollerava simili atteggiamenti. Se da un lato noi oggi sorridiamo al racconto delle sue clamorose bevute di vino o di come avesse promesso di "portare" sempre l'abito talare, in effetti portandolo sì, ma nello zaino, dall'altro dobbiamo fare mente locale alla situazione sociale dell'epoca, quando i comportamenti estrosi provocavano scandalo e la sua condizione di sacerdote (allora come oggi) non faceva che amplificarne la portata. Non deve stupirci dunque che un uomo, che ora ci appare così brillante, ai suoi tempi abbia provocato non poche preoccupazioni ai suoi superiori, sia in Valle d'Aosta come in Francia, dove fu parroco di montagna. La sua ormai passata frequentazione con il re Vittorio Emanuele, l'amicizia della regina Margherita, nonché quella di tutti i più bei nomi dell'alpinismo nostrano non gli evitarono il "confino" nella rettoria di Saint-Jacques, ultimo agglomerato di povere case in cima alla Val d'Ayas, ai piedi del Monte Rosa. Vi rimase 21 anni, sempre più indomito nello spirito ma sempre più declinante nel fisico, fedele ai suoi doveri di pastore ed educatore delle persone che gli erano state affidate, con le quali condivideva quella povertà che il sussidio assegnatogli dalla regina non faceva che mitigare in parte.
Nel 1905 dovette abbandonare l'incarico e ritirarsi nel priorato di Saint-Pierre, la casa di riposo dei sacerdoti anziani e malati, dove condivise gli ultimi giorni con altri illustri sacerdoti valdostani, come l'abbé Ménabréaz e l'abbé Cerlogne.
Morì il 4 novembre 1907 pochi mesi dopo essere salito per l'ultima volta al Piccolo San Bernardo, luogo per lui ricco di ricordi, ed esserne ridisceso a piedi, accompagnato dall'inseparabile alpenstock, dono della "sua" regina Margherita.
Non ci resta che invitare il lettore ad approfondire questa singolare figura di uomo, sacerdote ed alpinista, figlio della montagna e come essa duro e spigoloso. Raccomandiamo la lettura dei suoi scritti, che trasudano amore per la propria terra ed orgoglio per la propria cultura, ma anche dei ricordi che di lui scrissero i contemporanei come Lino Vaccari, Francesco Pastronchi, Henry Ferrand e l'abbé Joseph-Marie Henry.